Vincenzo Bruzzese: un maestro europeo – di Paolo Levi
È stato Arthur Rimbaud a parlare di raison ardente per la sua poesia. Pensando a Vincenzo Bruzzese, è questa la prima definizione che mi viene alla mente: una ragione fatta di veemenza, di accesa passione o, rovesciando i termini, una passione sostenuta dai convincimenti della ragione. La sua pittura ha sempre usufruito di questo intenso scambio dialettico – direi, a volte , drammatico – tra meditazione ed emozione. Bruzzese nasce non nell’Ottocento romantico, ma alla sua fine, nel 1880, e inizia a dipingere, come molti pittori della sua generazione, quando la ricerca pittorica in Europa, o meglio a Parigi, città guida di ogni avanguardia, ha rotto i canoni della tradizione. Da questo momento in poi, gli artisti devono fare i conti prima di tutto con Paul Cézanne, che apre le porte alla ricerca cubista. Ma con chi ha fatto i conti il giovane artista napoletano? Non di certo con i maestri partenopei che lo hanno preceduto; forse, in alcuni casi, con i Macchiaioli come nella composizione Viandante del 1902, ricerca del tutto naturale, dall’atmosfera ariosa. Ma degli anni degli studi a Napoli, del soggiorno dal 1905 al 1910 a Milano, del ritorno a Napoli l’anno successivo, nulla si sa di quanto egli fosse informato sugli accadimenti dell’arte in Francia, quando il giovane Amedeo Modigliani dipingeva enigmatiche donne dal lungo collo, e Pablo Picasso stupiva i collezionisti con i suoi Arlecchini, eseguiti prima nelle prevalenze del blu e poi del rosa. Su come egli abbia reagito alle avanguardie
del suo tempo nulla si sa. Era un uomo schivo, che viveva solo per la pittura e la sua famiglia; soprattutto era un uomo libero, e non solo a parole ma anche nei fatti. Indirettamente, forse, aveva respirato sino in fondo l’atmosfera di quella splendida Napoli, dove regnava con indiscussa autorevolezza Benedetto Croce, l’unico intellettuale italiano che negli anni Venti non si piegò alle angherie del regime. Politicamente repubblicano, e forse in gioventù persino simpatizzante del movimento anarchico, Bruzzese quindi non fu mai fascista, e rinunciò all’insegnamento, dove l’adesione al partito era un requisito richiesto, optando per un impiego alle Poste, ente pubblico molto più indipendente, dove vigevano norme di assunzione assai libere e operavano molti lavoratori e dirigenti di estrazione politica del tutto estranea al fascismo, che di fatto lo protessero. Per altro, il suo antifascismo è sicuramente il motivo per cui il suo nome e la sua opera non compaiono nei cataloghi delle Biennali di Venezia. Tuttavia, a chi segue da sempre la lezione estetica di Croce, non interessa tanto la dettagliata biografia di un pittore o di un letterato, quanto la consistenza formale ed espressiva del suoi lavori, e di analizzare le possibili attinenze con maestri di similare messaggio espressivo.
Al primo superficiale colpo d’occhio si è portati a considerare la ricerca di Bruzzese come una figlia di quella terra ricca di pittori che è stata la Napoli dell’Ottocento; all’interno quindi di una pittura di sonora e vibrante cromaticità, in molti casi sinfonica, spesso persino barocca. Forse è anche vero, ma non è tutto. Relegare Vincenzo Bruzzese nell’ambito del tardo Ottocento partenopeo, significherebbe considerarlo un sopravvissuto, dato che in quel primo Novecento, fra le due guerre, era esploso in Italia il Futurismo, e al di fuori di quel movimento, tutto nell’arte era apparso di colpo provinciale, con la conseguente emarginazione di molti artisti e delle loro opere. Il soggiorno milanese, durato cinque anni, non ha in alcun modo influenzato Bruzzese. Immaginiamo il suo sorriso di fronte alle provocazioni dei futuristi. Carlo Carrà rappresentava il gruppo di punta dei futuristi – nel 1910 era stato tra i firmatari del manifesto di F.T. Martinetti – e non lasciava spazio a pittori di tradizione come Bruzzese, o come Michele Cascella, che veniva da Pescara. Certo, Bruzzese è stato un pittore figurativo – e non è troppo tardi per definirlo un grande della tavolozza – ma tutt’altro che accademico, e tanto meno provinciale. Il fatto che negli anni fra il 1910 e il 1930 non guardasse alle esperienze di Parigi o a quelle del Movimento Futurista – che si esaurisce nel 1916, con la morte prematura di Umberto Boccioni – nulla toglie alla nostra certezza che egli fosse un maestro assolutamente europeo. L’aria che respirava, di cui forse era innocentemente inconsapevole, non proveniva da Parigi, ma dalla Germania dove, anziché seguire le imprese dei linguaggi rivoluzionari delle avanguardie imperanti in Francia, il giovane Vasilij Kandinskij, Franz Marc e Emil Nolde spingevano il dissolvimento della materia cromatica sino alla soglia dell’informale, che avrebbe poi vinto la sua battaglia in Europa e in America mezzo secolo dopo.
In un contesto culturale assai simile a quello tedesco, va quindi collocato un capolavoro di Bruzzese del 1912, San Martino all’Alba, opera inafferrabile, quasi al limite dell’informale, da cui emana una pura sensazione ottica. Uguale effetto si ricava dalla piccola tavola del 1925 Spiaggia degli Inglesi, composizione squisitamente tesa all’astrazione, dove la materia pittorica pare prendere il sopravvento come protagonista assoluta. Curioso questo pittore che opera a Napoli, e forse ignora che nel lontano centro Europa, a Berlino, lavorano colleghi i quali, anziché seguire le mode cubiste e futuriste, come accadeva ormai a Praga,Varsavia e a San Pietroburgo, fanno sperimentazione guardando alla lezione dei fauves francesi – straordinaria esperienza che si esaurisce in pochi anni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento – e creando i presupposti dell’Espressionismo. È tendenza, questa, che guarda al reale in chiave emotiva, e molte volte inquietante, e che apparterrà per sempre alla sigla pittorica di Vincenzo Bruzzese; in questa direzione di ricerca, una delle sue composizioni più intense è Chiesa napoletana, del 1950. Anche in questo contesto è ben presente la complessità del reale ma, in ragione di un colore steso in maniera espressionista, il vero appare come trasfigurato.
Guardando la complessità della ricerca di Vincenzo Bruzzese, nell’insieme struggente, vitale e poetico delle sue opere – tra cui i disegni, che sono tutt’altro che l’anticamera dei suoi dipinti ad olio, ma lavori chiusi e conclusi, e stilisticamente ineccepibili – si comprende assai bene l’anima dell’uomo. Per rimanere se stesso, è sempre stato fuori moda; in verità, i suoi dipinti rappresentano un’autobiografia intensa, che si svolge entro e non oltre i muri del suo ordinato e asettico atelier a Napoli. Egli dialoga con i fiori, con le nature morte; dipinge il vero che lo emoziona; dipinge in silenzio, lentamente; ogni tacca di colore, ogni passaggio rapido di furente spessore è un bagaglio di parole no
n dette, che si assommano in un mazzo di fiori o in un piatto con qualche frutto; i suoi lavori sono la rivelazione di una coscienza poetica solitaria, monologante, legata fortemente alla sua terra, eppure, come abbiamo già notato, aperta a orizzonti europei; accoglie le suggestioni che gli giungono dall’inconscio, le tramuta in forme e colori, e nelle nature morte intrattiene un dialogo intenso con la vita; ogni volta è come se pronunciasse una silenziosa preghiera di gratitudine alla bellezza del mondo, all’energia di un ortaggio maturato al sole, alla delicatezza di un petalo, alla freschezza dell’acqua. In queste composizioni è fauve, eppure aderisce al vero, senza compromissioni. Non cade e non cede mai, in questi contesti, alla severità dell’Espressionismo, eppure il suo tratto è fiero e forte e modernissimo nell’impianto dei volumi. Il fiore reciso per una vita provvisoria, non può certo essere poeticamente esasperato o inquietante. Ma fiori e frutti appaiono inermi, e sembrano appartenere a un altrove misterioso; non rappresentano neanche l’attimo fuggente di romantica memoria; tutt’altro. Sono forme e colori di tale magia da suscitare memorie arcane, eppure sempre riconoscibili nella presenza fisica di fiori e frutti eseguiti con rispetto, senza arbitrio. Una pittura vibrante, sorretta da una materia densa, abile e felice nel superare gli inganni del descrittivismo asettico, capace di dare corpo a una poetica intima, legata ai ritmi e agli eventi della quotidianità.
Vera vita si ritrova anche nell’amore che Vincenzo Bruzzese aveva per la figura umana. I suoi ritratti non sono esercizi oggettivi di bravura. Ben sappiamo quali sono le difficoltà e gli interrogativi che si pone il ritrattista di professione. È sufficiente un minimo errore, che può riguardare gli zigomi, gli occhi, il taglio della bocca, il disegno del collo, la verità complessa della fronte o delle mani, per rovinare tutto. In questa disciplina Bruzzese mutava di stato d’animo, concentrandosi non più sulle variazioni delle luci e delle ombre tipiche di un paesaggio o di una natura morta, quanto sulla psicologia dei suoi modelli, per lo più persone a lui care. In queste occasioni, tecnica e linguaggio acquisiscono nuovi e diversi tratti espressivi, che tuttavia si evolvono nel tempo. La maestria ritrattistica permane intatta col passare dei decenni, mantenendo la genialità intuitiva e la fedeltà al soggetto rappresentato, ma transitando dalla severità tutt’altro che indulgente dell’accademia che guarda all’Ottocento, a una ricerca più inquieta e indagatrice, dove l’applicazione del colore si rinnova e si fa più pulsante. E va detto quanto, in ogni caso, Vincenzo Bruzzese sia stato culturalmente libero: ha guardato a F.P. Michetti in un pastello del 1902, ha privilegiato trasparenza ed evanescenze in un olio su tavola nel 1908, per un ritratto di signora. Per lui ritrarre ha significato dialogare con l’essenza più intima dei suoi modelli. Segnalo a questo proposito un caso a mio avviso emblematico: in Giovane donna, olio su tavola del 1950, eseguito quindi negli ultimi anni della sua vita, il tratto è decisamente postimpressionista, evidenziando una cromia splendidamente vivace, e trasmettendo tutta la gioiosa spensieratezza della fanciulla ritratta.
Chi è stato, in effetti, questo grande pittore borghese, partenopeo? Un gigante, a modo suo, della tavolozza. Ha narrato a se stesso e a coloro che lo hanno seguito con fedeltà nel suo percorso poetico di libera sperimentazione materico – espressiva le proprie intuizioni, filtrate dal virtuosismo tecnico, che si sapeva adattare a situazioni emozionanti di realtà captate nelle loro forme suggestive, nella loro luce intensa, nelle loro ombre malinconiche. Un gigante solitario della pittura italiana, moderna; un personaggio schivo fuori dal proprio tempo, ma con tutte le carte in regola per essere inserito nella storia dell’arte figurativa moderna. Quanti recuperi sono avvenuti in Italia di artisti abbandonati nel silenzio, lasciati nel dimenticatoio? Vincenzo Bruzzese è uno di loro, e i suoi disegni, i suoi paesaggi, i suoi ritratti esistono anche se non hanno gallerie di protezione, e non entrano nei giochi subdoli del mercato. Quando si esaminano i quadri di questo maestro, che operava – cosciente, o incosciente, non lo sappiamo – lungo la ricerca complessa fauve, realista ed espressionista di Emile Nolde e della Brücke, sappiamo che non avrebbe mai potuto essere figlio di Parigi, ma di Berlino sì, senza dimenticare le sue inquiete origini mediterranee.
La dinamicità dei suoi ritratti dal virtuoso disegno cromatico, quella espressionista dei paesaggi, e quella lirico – realista delle nature morte, nasce dal fatto che egli coglie sempre, in ogni occasione visiva, la condizione poetica di un tassello vitale, dove convivono solarità e ombre, gioia e inquietudine, come dati di fatto, in tutta naturalezza. Egli stava davanti al suo cavalletto come se percepisse voci interiori che gli guidavano la mano, in un flusso di pensieri inarrestabili tramutati in magiche forme, in magici colori. E non escludo che dentro di lui agissero intimi momenti spirituali, in una sorta di laica religiosità.
È questa la giusta chiave per una lettura di Bruzzese? Almeno in parte credo di sì. Ragione, passione, spiritualità, tutto comunque si è fuso in lui in tarda età, in una visione del mondo definitiva e completa. È chiaro che le sue tematiche sono portatrici di emozioni e, soprattutto, di più significati. Egli è stato pittore energico, antiretorico, mai descrittivo, verista allusivo, dal forte e inimitabile potere evocativo. È stato maestro tutt’altro che elegiaco, tutt’al più maestro salvifico tramite un’ammaliante tavolozza, dove il colore permane come la voce del suo spirito.
Paolo Levi